Nel dibattito tra un modello di città verticale od orizzontale qualche riflessione sui programmi di alcune amministrazioni improntati sulla diffusione dei “verticalismi”, analisi dei pro e i contro dell’architettura verticale soprattutto in relazione al tessuto storico preesistente delle città europee ed italiane.
Di seguito si riporta un mio capitolo del libro “Torri residenziali – modelli di abitazioni, modelli di paesaggi” di Edizioni Unicopli, Milano 2005.
(Pubblicato da Carlo Gervasini, Citysmile blog, Milano 10 Ottobre 2011).
(Pubblicato da Carlo Gervasini, Citysmile blog, Milano 10 Ottobre 2011).
In the debate between a vertical or horizontal model of the city a few comments on some local government programs based to the dissemination of "verticalisms", analysis of the vertical architecture especially in relation with the existing historical texture of the European and Italian cities .
Below is a chapter of the book "Residential Towers - residential and landscapes examples" Unicopli Edizioni, Milan 2005.
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Il dibattito disciplinare su un modello verticale od orizzontale di città.
La tipologia a torre rappresenta un archetipo fondamentale nell’immaginario collettivo, immediatamente riconoscibile per la sua verticalità, la torre restituisce riconoscibilità anche al luogo e al paesaggio in cui si trova: essa infatti, secondo Mies, “svolge il doppio ruolo di guardare lontano ed essere vista da lontano”.
Pisa, Bologna, San Gimignano, ma anche quartieri di città come La Defence, Manhattan, i docklands di Londra devono la loro riconoscibilità agli edifici a torre.
La torre è un segno verticale per eccellenza, la sfida dell’uomo nei confronti della gravità, un segno artificiale in antitesi alla linea naturale dell’orizzonte, un’imposizione dell’uomo nei confronti della natura.
Ad essa viene associato il simbolo dell’elevazione, dell’ascensione dell’uomo verso il cielo, ma anche simbolo di pericolo, di caduta e fragilità.
Per alcuni metafora dell’uomo stesso, simbolo della propria individualità, alla torre spesso vengono collegati molti significati, tra tutti resta innegabile il fatto che essa sia carica di profonda semantica e indiscutibile fascino.
Punto di osservazione privilegiato, osservatorio unico per la conoscenza visiva e percettiva del suo intorno e del territorio, luogo di eccellenza per il controllo delle aree circostanti, alla torre storicamente sono state associate molte funzioni: civica, militare, religiosa, marinara, e non ultima (soprattutto con l’avvento del Movimento Moderno) quella abitativa.
Entrata prepotentemente nella toponomastica territoriale (legando al suffisso “Tor”, “Torre” altri toponimi) è, da sempre, elemento costitutivo del territorio, non solo fisicamente, ma anche nella realtà linguistica dei luoghi grazie ad un sistema di nomi depositati e stratificati nei contesti geografici.
Oggi persistono, nell’immaginario collettivo, alcune mistificazioni in ordine all’idea di torre.
Innanzitutto si tende ad identificare nel tipo a torre il prodotto di una operazione connessa al capitale finanziario che, per l’alto livello di investimento necessario per la sua realizzazione, e per la forte valenza espressiva ha assunto la torre come elemento a simbolo della propria immagine.
In secondo luogo, questa tipologia è sempre stata identificata come caratteristica della cultura americana, perché da lei è stata prodotta ed esportata, in chiave moderna, in tutto il mondo.
Infine la cultura europea ha da sempre collegato alle torri il carattere pubblico (storicamente in Europa si sono diffuse le torri civiche, i campanili, le torri militari, ecc.) senza dar vita ad un possibile sviluppo della funzione privata e residenziale.
Un corretto approccio al tema impone, quindi, una nuova reinterpretazione della torre come elemento di misura del territorio, di rivitalizzazione della città contemporanea, come un valido modello insediativo, in contrasto con gli attuali orientamenti urbanistici, come in Asia e America, che propongono una indiscriminata proliferazione territoriale delle torri slegandole da un effettivo e coerente rapporto territoriale.
Tipologia e morfologia
La residenza è il fatto urbano preminente nella composizione della città, che ne è sempre stata caratterizzata. L’aspetto residenziale è sempre stato presente in tutte le città, e, nell’evoluzione contemporanea, tutte le modificazioni sono andate a vantaggio della residenza che ha occupato sempre più spazi rispetto alla città plurifunzionale del passato: prima con la distruzione del rapporto di vicinato con l’industria; dopo con quello col commercio al minuto, funzioni che sono state espulse dalla città consolidata verso aree periferiche attestate sui grandi assi di comunicazione.
La forma con cui si realizzano i tipi edilizi residenziali, l’aspetto tipologico che li caratterizza, è strettamente legato alla forma urbana, come ampiamente documentato dalla letteratura in materia.
La localizzazione della residenza dipende da molti fattori: geografici, morfologici, storici, economici, strutturali.
Nella conformazione della città ottocentesca (vedi il caso di Berlino, citato da A. Rossi in “L’architettura della città”), esiste una correlazione stretta tra la struttura urbana e la struttura tipologica: ai tipi edilizi (costruzioni a blocco, corpi liberi, case unifamiliari, torri) corrispondono zone di città tra loro diverse, in una sorta di zoning.
Le costruzioni a blocco sono tipiche di una conformazione a quadre del tessuto urbano, e costituiscono la forma più integrale di sfruttamento del suolo, in quanto gli indici di impermeabilità dei suoli risultano elevati.
Con le costruzioni a corpo libero la strada non è più l’elemento ordinatore dell’orientamento e degli allineamenti dei corpi di fabbrica, questa tipologia edilizia viene piuttosto dettata da esigenze di esposizione eliotermica e dal rapporto con gli spazi liberi e verde, e quindi si instaura un preciso rapporto col suolo.
Questa tipologia ha avuto molta fortuna tra i razionalisti del Movimento Moderno, in quanto essa rappresenta, oltre che un modello spaziale, anche un modello sociologico.
Per le case unifamiliari isolate, le ville, e per analogia le tipologie abitative a torre (a scala più grande) si pone in modo ancora più stretto il rapporto con la natura e l’ambiente circostante, con la campagna, mediante l’autorappresentazione formale e il distacco dai modelli insediativi ad alta densità tipici delle zone urbanizzate consolidate.
Le sperimentazioni urbanistiche del Movimento Moderno, in antitesi con un modello di città convenzionale ad alta densità, adotteranno questa tipologia per formulare una idea di “città sparsa nella natura”, conformata da una zona a destinazione produttiva ed intorno, con un forte legame naturalistico, edifici residenziali ed edifici pubblici.
L’edificio a torre ad uso residenziale contiene molte analogie con la casa isolata e la villa: entrambe sviluppano una geometria planimetria riconducibile alla forma del poligono quadrato, libero su tutti i lati; la prima è lo sviluppo, in scala più grande (sia in verticale che in orizzontale) dell’impianto della seconda; hanno entrambe una distribuzione interna estroversa nei confronti del contesto circostante; la torre abitativa contemporanea è l’evoluzione in verticale della villa grazie all’uso delle nuove tecnologie costruttive e dal diverso valore economico dei suoli urbani edificabili rispetto al passato.
La torre abitativa sviluppa il bisogno primario della casa come “rifugio”, come luogo da vivere privatamente (domus romana), ma al contempo si basa anche sul secondo aspetto basilare della forma abitativa: il necessario rapporto col luogo e con l’intorno.
Si sono configurati, agli inizi del ‘900, due principali modelli (in parte utopistici) dettati da una concezione nuova e rivoluzionaria dell’abitare: il primo delinea una grande incidenza di spazi verdi ma ad uso quasi esclusivamente privatistico, nella Città Giardino di Howard, con una disposizione residenziale di tipo orizzontale; il secondo individua enormi polmoni verdi ad uso comune, secondo le utopie razionaliste del Movimento Moderno, inserendo in essi l’uso di tipologie residenziali sviluppate e concentrate verticalmente.
La Carta d’Atene (1933), manifesto del M.M. per un nuovo modello di città, detta il giusto rapporto tra volumi costruiti e spazi liberi, i primi dovranno concentrarsi volumetricamente in altezza a favore delle aree libere dedicate allo sviluppo delle diverse attività comuni.
Le tipologie consigliate (torri e blocchi isolati - “Unitès”, “Redents”) possono soddisfare determinate condizioni di vista piacevole, aria pura, completa esposizione al sole.
La disposizione rada delle unità abitative non permette alcuna interferenza visiva, gli alloggi residenziali sono così completamente immersi nel verde, l’Unitè, metaforicamente, viene paragonata da Le Corbusier come una nave con attorno a sé l’elemento naturale (il verde metafora del mare), unicamente variato da altre navi all’orizzonte.
Questo rappresenta un modello di città in contrapposizione alla città ottocentesca ove era possibile la frammistione funzionale tra residenza e le altre attività anche di tipo produttivo, strutturata secondo principi localizzativi fortemente legati alla maglia viaria infrastrutturale, senza presupposti igienico-ambientali.
La novità fondamentale delle utopie urbanistiche di Le Corbusier, oltre al delinearsi di un disegno urbano che anticipa l’idea di una città lineare, è che la residenza si riappropria delle parti urbane più pregiate (quelle centrali e meglio accessibili) e adotta, sviluppandosi verticalmente, una tipologia, costituita da enormi grattacieli.
“Le Corbusier affida al verde come spazio costruito, il ruolo di definire il contesto dell’abitazione, in rapporto alle diverse forme del costruito, dalle grandi corti alle case a torre, che diventano gli elementi di formazione e possibile riconoscimento dei luoghi specifici (Monestiroli)”.
Per Mies van der Rohe “… costruire grattacieli vuole dire liberare grandi aree da restituire alla natura. Il grattacielo sarà il luogo dei punti di vista della natura circostante. Vedrà altri grattacieli all’orizzonte, altri luoghi identificati della grande città-campagna. Di questi edifici si è impossessato il potere economico. Vanno restituiti alla collettività”.
Le torri residenziali realizzate da Mies a Chicago esaltano il concetto di realizzare “una stanza sospesa tra lago e cielo”, quintessenza del vivere in rapporto con la natura e il paesaggio.
Mies ribadisce la necessità di istaurare questo rapporto, che nella città evoluta moderna può essere risolto con l’adozione della tipologia a torre, della quale ne rivendica la funzione residenziale.
Il caso urbanistico di Metanopoli
A partire dagli anni ’50, a sud del Comune di Milano e all’interno del Comune di San Donato Milanese, su impulso di E. Mattei, si è sviluppata una nuova forma di insediamento: Metanopoli.
Caratterizzata da un elevato profilo ambientale ed urbano, rappresenta un esemplare caso di pianificazione integrata dei luoghi di lavoro con la residenza e le attrezzature per il tempo libero.
Il complesso di residenze, servizi, attrezzature collettive e verde comune si sviluppano, in M., in un ordinato assetto planivolumetrico con una geometria urbana ad alta leggibilità in un contesto architettonico di pregio segnato dalla presenza di edifici di elevata qualità progettuale.
Queste connotazioni fanno sì che il complesso di Metanopoli emerga dal disordine insediativo della cintura metropolitana del sud milanese, essendo un quartiere a misura d’uomo nel territorio di San Donato, sintesi di qualità urbana di impianto razionalista, caso urbanistico sui generis tra città giardino e parco tecnologico, esempio di landscape design per il rilievo paesaggistico del sistema di tracciati viari, piazze, edifici collettivi e verde ad alta fruibilità, senza barriere e recinzioni.
Recentemente la Commissione Provinciale per la Tutela delle Bellezze Naturali ha ritenuto opportuno l’apposizione del vincolo ai sensi del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” perché il complesso di Metanopoli costituisce ancora oggi uno degli esempi italiani più significativi di periferia urbana del dopoguerra in cui architettura e natura, con pari dignità, concorrono alla definizione dello spazio urbano.
Riferimento storico e culturale assolutamente esemplare di progettazione organica di un nuovo insediamento con le sue diverse funzioni (l’abitare, il lavorare, il loisir), Metanopoli è stata pensata in termini moderni di landscape design, nel quale spiccano i noti edifici del Primo e Secondo Palazzo Uffici.
Nel suo impianto urbano l’attenzione rivolta al verde supera una visione puramente funzionalista per divenire progetto di connettivo ambientale, scenario fondamentale e continuo degli edifici e dei luoghi urbani. Questo carattere esemplare si concretizza nell’assenza di recinzioni e volumi accessori che interrompono la permeabilità degli spazi aperti, in uno scenario progettuale che tende ad allargare in modo illuminato il concetto di spazio collettivo urbano pur differenziandone con maestria il carattere delle diverse parti.
E’ infatti attraverso l’attenta collocazione degli edifici, il disegno dei percorsi e il sapiente uso degli elementi verdi che risultano assegnati maggiore visibilità ed enfasi alle aree affacciate sui percorsi, ingressi e spazi pubblici e per contro un carattere più protetto alle aree di pertinenza delle residenze.
Va riconosciuta, in questo esempio urbano, una qualità di paesaggio urbano difficilmente riscontrabile in altre aree periferiche moderne, attribuibile principalmente al felice ed armonioso rapporto, costruito e conservato fino ad oggi, tra architettura ed ambiente.
In questo contesto urbano, a partire dal 1958 sono stati realizzati tre esempi di architettura residenziale verticale, degli edifici a 7 piani (denominati “Gigantini” per il loro sviluppo verticale slanciato), che rappresentano una insolita proposta tipologica residenziale per San Donato, dove, fino ad allora, avevano trovato sviluppo tipologie con distribuzioni in linea, che meglio si adattavano all’impianto infrastrutturale della città che è composto da quadre di circa 120 metri per lato.
La volontà di auto-rappresentazione e di valorizzazione aziendale del Gruppo ENI, proprietario della quasi totalità delle aree di Metanopoli, e unico artefice e promotore dello sviluppo urbanistico della città a partire dagli anni ’50, si era espressa con la realizzazione del 1° e 2° Palazzo Uffici, due grosse torri di cristallo, esempi significativi dell’architettura contemporanea, poste strategicamente in corrispondenza della virtuale porta di accesso alla città da Milano, a margine della Via Emilia e della cosiddetta autostrada “del sole”.
Con gli uffici ENI, in accordo con le tendenze immobiliari del secondo dopoguerra, si individua, nella tipologia a torre, oltre che una scelta di tipo funzionalista, anche una necessità auto-celebrativa, un segno forte territoriale in una posizione di grande accessibilità e visibilità, quindi un mezzo per meglio essere visti e riconosciuti.
Con la stessa logica localizzativa è stato realizzato il Grattacielo Pirelli nei pressi della Stazione Centrale di Milano, in quanto punto strategico della città, porta di accesso, punto di interscambio con elevati transiti pedonali e viari.
I Palazzi ENI e il Grattacielo Pirelli sono quindi esempi di architetture scenografiche, quinte visive del palcoscenico urbano, elementi necessari per una adeguata immagine aziendale sostenuti da una profonda logica localizzativa.
Nel caso dei “gigantini” è importante porre in rilievo le logiche localizzative che hanno determinato il loro inserimento all’interno del tessuto urbano della città:
la prima torre (Via De Gasperi 21) risulta localizzata in fregio a questo asse principale della viabilità sandonatese (vera e propria strada-parco, che attraversa ampie zone verdi della città – Parco Tre Palle, Il Pioppeto, ecc. – costituita da un doppio filare di alberi e da percorsi ciclabili e pedonali a margine del sedime carrabile), l’edificio, inoltre, risulta contermine ad un’ampia area verde interposta tra la strada Paullese e lo stesso Viale De Gasperi, che solo recentemente (anni ’90) è stata in parte edificata ad edilizia convenzionata (ai sensi L. 167/62). Il contesto pertanto risulta di forte valenza ambientale, tale da giustificare un volume concentrato a favore ampie superfici aperte destinate a verde.
La seconda torre (Via Vasto, 6) è invece prospiciente all’area denominata “Laghetto”, anch’essa di forte valenza ambientale, costituita da una ex-cava, oggi specchio d’acqua per pesca sportiva, attorniata da ampie porzioni verdi e zone boschive.
Altre aree verdi a standard limitrofe conferiscono alla zona connotazioni di elevato livello paesaggistico naturale, la torre risulta pertanto inserita in un contesto altamente qualitativo in termini di vivibilità e ambiente naturale.
La terza torre (Via Emilia) è stata demolita alla fine degli anni ’80 per permettere l’attuazione di un piano urbanistico (PL Quartiere Affari) esteso a tutto il comparto edificatorio interposto tra la Via Emilia e lo svincolo autostradale.
L’ubicazione dell’edificio segnava il confine tra la città edificata e la aperta campagna, e in un contesto caratterizzato ancora da forti connotazioni agricole, conferiva alla torre un punto di osservazione privilegiato nei confronti della distesa pianeggiante del sud milanese, e fungeva, metaforicamente, a faro di accesso alla città.
Nel caso di San Donato-Metanopoli esiste, quindi, in modo chiaro una relazione binaria tra tipologia edilizia a torre e il sistema urbano-ambientale, che nel caso delle torri ad uso uffici trova ragione nel rapporto col sistema infrastrutturale dell’accessibilità e delle strategie localizzative di immagine, nel caso delle torri residenziali risulta essere in ragione al binomio casa-ambiente.
Il dibattito oggi
Recentemente, a seguito dei processi di riqualificazione e trasformazione di importanti aree produttive, fieristiche e carcerarie all’interno della città di Milano, il dibattito su una possibile applicazione di un modello verticale di città è tornato ad essere di grande attualità, esprimendosi con significativi confronti interdisciplinari.
Iperboli giornalistiche, poi, annunciano addirittura l’avvio di una sorta di “Rinascimento Milanese”, che vede oggi Milano come laboratorio creativo progettuale al quale partecipano le più note firme internazionali dell’architettura.
Effettivamente, già nell’immediato dopoguerra, Milano ha vissuto un periodo particolarmente felice e irripetibile, in termini di qualità architettonica, in cui i migliori architetti (di formazione e origine però milanesissima) si sono confrontati sul tema della ricostruzione: Albini, BBPR, Ponti, Caccia Dominioni, Gardella, ed altri.
In parallelo a questo, Milano negli anni ’50 e ’60 ha vissuto poi il periodo magico corrispondente alla nascita del design industriale (Zanuso, Magistretti, Castiglioni, J. Colombo), era in atto, allora, una vera e propria fucina di talenti.
Può Milano, oggi, essere paragonata alla Firenze del Brunelleschi o alla Roma di Michelangelo? Il Rinascimento italiano apriva le porte ad una nuova esplosione creativa in tutti i campi artistici, lasciandosi alle spalle i cosiddetti secoli bui del Medioevo, come oggi si lascia la stagnazione (tutta italiana) degli ultimi 20 anni.
Alcune deboli analogie possono essere tracciate tra i progetti di trasformazione e rifacimento urbano tipici del Rinascimento con quelli attualmente in atto nell’area milanese, e soprattutto tra le eccezionali occasioni lavorative che si erano presentate allora agli artisti rinascimentali con quelle attuali, dovute però oggi più ad un maggiore liberismo urbanistico e speculativo che ad una illuminata committenza.
Anche allora, per una sorta di “internazionalizzazione” ante-litteram, architetti stranieri (Borromini, Maderno) operavano nel ventre delle città italiane, un po’ come oggi avviene a Milano, dove un architetto cinese (Pei) si aggiudica il progetto della nuova sede della Regione Lombardia, un americano (C. Pelli) disegnerà la nuova sede comunale, un inglese (Foster) ridisegna la più grande area ex-industriale cittadina di Rogoredo, un giapponese (T. Ando) taglia gli spazi della moda, ed uno svizzero (Botta) opera addirittura sul vero cuore della città: la Scala.
Di certo l’arditezza della Cupola del Brunelleschi o la bellezza imponente di quella di Michelangelo non possono essere paragonate alle architetture verticali dei nuovi interventi a Milano.
Il vuoto miserabile degli anni ’80 e ’90 è finito, ma nulla induce a pensare che si sia di fronte ad un periodo memorabile: è solo una fase positiva, importante, che lascerà segni significativi nel tessuto urbano edilizio, così come fece la Milano futurista, la Milano eclettica e quella fascista.
Nel contesto attuale intellettuali, architetti, sociologi, analizzano il processo di sviluppo e trasformazione della città applicando diversificati indici e parametri di valutazione; vengono determinati, così, risultati e conclusioni molto diverse tra loro.
Una parte degli architetti ritiene che si debba rivedere criticamente i modelli di sviluppo urbano, la città in verticale sembra essere un mito in crisi: “costruire in altezza oggi non è più funzionale, è una forzatura se non lo impone la forma del terreno. I grattacieli necessitano intorno degli spazi enormi, per la creazione di giardini che li rendano umani. Londra è attraversata da un grande fiume, ha orizzonti vasti su cui i grattacieli non incombono; Milano il fiume e gli spazi non ce li ha. Le nazioni asiatiche si ispirano al peggio del modello occidentale trasformando le loro città in una caricatura di quelle americane, distruggendo i loro tessuti storici e assurgendo le torri a simboli di ricchezza, prestigio e potere sopra alle periferie degradate” (Botta).
Secondo questa opinione bisogna rivendicare, inoltre, il primato di una condizione dell’habitat radicata alla geografia, alla storia e alla cultura, ove l’uomo cerca le proprie radici e consolida le proprie tradizioni. L’edificio non deve essere un oggetto di design in sé, senza storia né memoria.
Allineati su questi filo di pensiero, altri ritengono che sia assolutamente necessario invertire il processo di localizzazione nelle periferie delle parti più povere della società, fenomeno dovuto non solo a motivazioni economiche legate alla rendita fondiaria, ma soprattutto è un fattore simbolico e culturale della civiltà.
“Le funzioni, affinchè la città funzioni, devono essere mescolate, il modello razionalista non ha funzionato, mentre l’esempio delle città storiche rappresenta, ancora oggi, se integro, un modello riuscito e convincente. I grattacieli non sono un toccasana per la vivibilità della città contemporanea, ma rispondono principalmente a questioni di carattere finanziario. Dal punto di vista funzionale non rappresentano un modello convincente in termini di vivibilità nel contesto urbano, che potrebbe essere migliorata con azioni di intervento nel sistema della viabilità e nell’emissione di inquinanti” (Campos Venuti).
Criticamente si sostiene poi che “Lo sviluppo non controllato dei grattacieli, dettato dalla logica della massimizzazione dei profitti, ha prodotto edifici che hanno deformato i centri urbani, deturpato gli spazi pubblici, indebolito la vitalità di altri comparti dell’organismo urbano” (J. H. Kunstler).
D’altro canto altri critici esprimono opinioni favorevoli nei confronti di questo modello di sviluppo.
Il grattacielo può essere interpretato come uno strumento per creare nuovi panorami artificiali e metropolitani, con una forte valenza espressiva sulla cui immagine è necessaria la riconoscibilità e l’accordo della gente. “Le proporzioni del grattacielo sono un forte elemento di demarcazione del territorio, quindi con una grande funzione geografica” (R. Vinoly).
Nel caso specifico di Milano, il suo skyline è contrappuntato da numerose torri storiche, moderne, tecnologiche. “La creazione di corone di torri attorno ad uno spazio aperto, diradando il suolo e verticalizzando le volumetrie è un processo di ricomposizione della città che spinge le dinamiche immobiliari del capitale privato ad interessarsi, in modo compiuto, ad un ridisegno complessivo anche degli spazi collettivi” (Boeri).
Altri ritengono che la bellezza e il carattere dell’architettura si può esprimere, come è avvenuto storicamente con le cattedrali gotiche, attraverso la verticalità.
Le opere storiche colossali, cariche di un forte carattere simbolico, trasmettono la loro modernità fino ad oggi.
Con l’avvento, nel ‘900, dell’edificazione in verticale in modo più diffuso, grazie all’uso di evolute tecnologie costruttive, il concetto di “paesaggio” ha subito una considerevole evoluzione, nell’accezione comune di spazio libero, vuoto, si è aggiunta quella di skyline costruito e costituito da porzioni vuote e piene di elementi verticali.
Secondo i fautori della verticalità, l’edificazione in alto deve coniugare il progresso, la bellezza, la funzionalità, non deve essere espressione della vanità di un popolo ma del loro entusiasmo e della ricerca tecnologica.
Milano non si è posta il problema della densità urbana, e dal secondo dopoguerra si è dilatata a dismisura, soprattutto in direzione Nord, dove il territorio fino a Como e Varese risulta urbanizzato in modo continuo, una sorta di città infinita.
Non ponendosi il problema della dilatazione a dismisura (in orizzontale), la metropoli determina un continuo consumo di suolo a detrimento della ricchezza del tessuto rurale tipico della pianura padana, che è una grande ricchezza paesaggistica da tutelare.
Vengono assunte opinioni maggiormente bilanciate anche tra molti addetti e studiosi, che, pur riconoscendo alcuni risvolti negativi legati ad un processo di trasformazione urbana legato ad un modello verticale, riconoscono i benefici e i vantaggi che questo modello può rendere alla città.
Una struttura verticale della città ha senso se si crea uno spazio urbano, un pezzo di costruzione della città in relazione anche al sistema dei servizi e della fruibilità collettiva.
“Si ribadisce la necessità di un contesto e di una situazione che giustifichi la scelta tipologica, che non deve mai essere assunta a priori” (De Carlo).
Altri pongono l’accento sull’aspetto energetico dell’edificio a torre: “bisogna tenere in considerazione il problema del risparmio energetico, poiché i grattacieli sono una macchina costosissima per i costi edilizi (oltre 15-20 piani), per l’energia del condizionamento, per gli elevati costi di manutenzione. E’ importante, nella progettazione, tenere in considerazione le problematiche del risparmio energetico, dei recuperi di calore, dei sistemi di ventilazione, dei materiali e le tecnologie. Grattacielo non è solo un problema di forma urbis” (Beltrami Gadola).
Per altri non sono accettabili modelli di sviluppo nostalgico-romantici legati solo ad un valore paesistico-pittoresco.
Così come l’orizzontalità delle cascine, rispecchiando costruttivamente l’orizzontalità della pianura, rappresenta un rapporto di conciliazione, di alleanza con la natura, anche il verticalismo delle torri può essere in piena armonia con il paesaggio.
Bisogna infatti ricordare l’insegnamento di Vitruvio, che nel suo trattato parla della docilità verso la natura, che si esprime attraverso l’architettura come imitazione dei processi naturali, una disciplina che, costituita di artifici, costruzioni in opposizione alla natura, ma anche in perfetta consonanza con essa perché ne utilizza l’insegnamento che si può cogliere dai processi naturali.
“Il paesaggio e l’architettura, si depositano nella nostra memoria e diventano un elemento che interagisce continuamente nel nostro pensiero. Un segno architettonico non si esaurisce nella sua funzione, ma il suo rapporto con il paesaggio costituisce un valore culturale a sé, che ha un altissimo valore. Il paesaggio rappresenta, attraverso una piena armonia tra naturale e artificiale, un esempio altissimo di equilibrio. Sostenibilità e sviluppo sono concetti che procedono parallelamente. Tradizione deriva dal termine tradere, cioè tradimento, infatti la storia è sempre stata un tradimento, una interpretazione” (Portoghesi).
In conclusione emerge che l’inserimento tout-court delle tipologie a torre nel contesto storico delle città europee, caratterizzato da un modello di insediamento industriale, in cui i rapporti dimensionali tra parti costruite e spazi pubblici non edificati aveva una sua coerenza e un preciso equilibrio armonico, introduce necessariamente effetti innovativi che potrebbero avere ricadute negative in termini di impatto visuale e paesaggistico, viabilità e trasporti, impoverimento sociale (per l’uso monofunzionale di un’area), inquinamento.
Un modello verticale di città risulta quindi convincente se sostenuto da tecnologie costruttive eco-compatibili, sistemi infrastrutturali idonei alle nuove densità, progetti basati su un sistema coordinato di disegno degli spazi pubblici e di aggregazione, plurifunzionalità delle superfici abitabili, coerenza con il sistema ambientale e gli spazi verdi della città, rifiuto verso linguaggi compositivi dettati da maniersmi neo-moderni non riconducibili alle specificità dei luoghi.
Di fondamentale importanza, così come per qualsiasi intervento edilizio, a maggior ragione per le torri (tipologia di forte impatto visivo), si deve tener conto di una valutazione complessiva del sistema ambientale in cui viene inserita, mediante lo studio del rapporto e dell’impatto sul paesaggio, della permeabilità delle aree e il grado di occupazione di esse, del traffico indotto e dell’accessibilità.
Dovranno essere fatte valutazioni in ordine all’inserimento paesaggistico delle masse volumetriche mediante lo studio visivo tipo-morfologico e dovranno essere valutati gli aspetti legati al decoro urbano, ovvero la coerenza del carattere e delle tipologie dell’intervento col tessuto urbano.
Inoltre, a dispetto di quanto sosteneva Benedetto Croce in “Problemi di Estetica (1923)” riguardo l’estraneità dell’economia all’arte architettonica, oggi appare sempre più evidente quanto debba essere, invece, stretto il connubio tra le due discipline, economia e funzionalità, che sono due ingredienti essenziali nell’evoluzione e nella trasformazione della città contemporanea.
Qualità dei progetti, nuovi spazi di aggregazione, architetture interattive, trasparenti, accessibili, sono gli imperativi che emergono dal dibattito interdisciplinare in fase di svolgimento a Milano, dove 7 milioni di metri quadrati di aree attendono una riqualificazione urbanistica complessiva.
Appare evidente come l’urbanistica, per rispondere pienamente ai processi di evoluzione urbana, debba sempre più avvalersi degli apporti pluridisciplinari sconfinando nei settori dell’estetica, interaction design, ergonomia, ecologia e psicologia collettiva.
I grandi progressi delle scienze e delle arti sono avvenuti ai margini, e non all’interno, delle discipline, in un territorio non codificato o istituzionalizzato.
Attendo con ansia il post...le premesse sono buone
RispondiEliminaciao
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Bello,
RispondiEliminaBella foto!
RispondiEliminainteressante...
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